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  • Immagine del redattoreAlessandro Borgonovo

Buona lettura

Capitolo 1 - "Il vano"

Caro Lettore, eccoci qui insieme per iniziare il nostro cammino. “Il vano” … Titolo enigmatico non è vero? Lo so, me ne rendo conto soprattutto per chi non è del “giro” (intendo quello sanitario relativo al mondo dell’emergenza extra-ospedaliera). “Il vano” è il compagno di avventure del Soccorritore in servizio sulle ambulanze; compagno inseparabile con il quale si condividono poche gioie e troppi dolori. In pratica è la parte posteriore di ogni ambulanza, dove i pazienti viaggiano e i Soccorritori si danno un gran da fare per cercare di salvare vite o almeno alleviare le sofferenze delle persone che hanno richiesto il loro aiuto. “Il vano” è la seconda casa di ogni Soccorritore, una sorta di “domicilio temporaneo” che diventa casa ogni qualvolta si entra in servizio.

“Se queste pareti potessero parlare” è il vecchio adagio che più si avvicina alla reale condizione del “vano”. Vista la sua nobile funzione ogni Soccorritore manifesta un certo rispetto per questo luogo. Questo magico spazio ha sentito decine e decine di storie, chiacchere, pettegolezzi, pianti e risa, ha visto nascere nuove vite e purtroppo lo spegnersi di altre.

Tutto questo preambolo si è reso necessario per dare un’idea a tutti coloro che non sanno cosa sia, ma soprattutto mi serve per introdurre cosa ho provato, come ho vissuto la mia esperienza “nel vano”, dove tutto è cominciato.

Essendo in servizio attivo nell’emergenza da più di trent’anni, ho vissuto nel “vano” buona parte della mia vita: ho abitato in diversi vani negli anni, ambulanza dopo ambulanza, sono salito e sceso migliaia di volte, ho pulito lucidato e riassettato quella sorta di mono locale tantissime volte (molto più di casa mia).

Fino ad ora lo avevo vissuto così: almeno fino a quel fatidico giorno. Il giorno in cui a causa di una oggettiva difficoltà respiratoria, sono stato costretto a ricorrere all’aiuto dei sanitari. La data resterà scolpita per sempre nella mia mente: sabato 14 Marzo 2020.

Da quel giorno le cose sono cambiate: ho visto “il vano” da un altro punto di vista. Tutto ad un tratto mi è sembrato angusto, spartano e totalmente isolato dal mondo esterno. Quasi non lo riconoscevo. Non per la gravità della patologia in atto che mi offuscava la mente, più lo osservavo meno lo riconoscevo. Il punto di vista da paziente sdraiato sulla barella mi impediva probabilmente di avere una giusta valutazione degli spazi.

Tutto “il vissuto” all’interno dello stesso identico spazio nel quale mi trovavo in quel momento sembrava svanito; nonostante conoscessi benissimo i due sanitari (due miei ex allievi), le loro figure non mi erano di aiuto, non riuscivo a focalizzare nulla del passato.

Per tutta la durata del viaggio, pur conoscendo perfettamente la strada che stavamo percorrendo, ogni buca della strada che risuonava all’interno del “vano” risultava nuova, come mai sentita, come se fino ad allora tutti i servizi fossero stati effettuati su carreggiate lastricate di gommapiuma.

Ecco come ho vissuto “il vano”, che fino a pochi giorni prima avevo considerato ambiente confortevole e protettivo nel quale mi sarei mosso tranquillamente, anche ad occhi chiusi. Il cielo dell’ambulanza sopra di me mi risultava quasi nuovo, come se fosse stato rifatto o ridipinto di recente.

Non so dirti Caro Lettore come sarà in futuro, quando vedrò di nuovo “il vano”: sarà amico o nemico? Ritroverò la memoria delle missioni vissute la dentro?

Finalmente si arriva in ospedale: un particolare passaggio e tracciato è stato appositamente creato per l’ingresso degli infetti (o sospetti tali) da COVID-19. Comincia la mia nuova odissea, saluto e ringrazio i due sanitari con i quali ho fatto servizio decine di volte.

L’ingresso da quella porta cambierà per sempre la mia vita. Ogni corridoio che attraversavamo con la barella, ogni porta oltrepassata, ogni ascensore preso, segnava il cambiamento in atto. Non avrei mai pensato in 52 anni di vita, che un evento del genere potesse realmente cambiare alcune cose in me, ormai radicate. Il titolo di questo racconto, #siamotutticambiatiadesso, lo descrive perfettamente e naturalmente non è casuale.

Oltre al sottoscritto, milioni di altre persone sono state costrette a cambiare abitudini, modi fare, e perché no, modi di pensare e a riconsiderare la scala dei valori che abitualmente utilizziamo. Il Lockdown Italia ha sicuramente cambiato qualcosa. Non ti so ancora dire se questo cambiamento sia in meglio o in peggio ma cercherò di scoprirlo.


Capitolo 2 – “L’alveare”

Caro Lettore, ed eccoci qui, arrivati all’interno “dell’alveare”. Alveare? Dirai tu… si alveare. È la prima cosa che mi è venuta in mente una volta raggiunto il reparto di terapia sub-intensiva posizionato nel sottosuolo. Dopo i primi controlli necessari all’ingresso e la rilevazione dei miei parametri, valori molto tristi e soprattutto preoccupanti, vengo spostato nel centro dell’alveare.

Questa definizione necessita una doppia spiegazione, in quanto Caro Lettore, mi sono figurato due diverse ambientazioni.

Per chi come me è un patito di tutto ciò che è fantascienza, declinata in tutte le sue forme, sicuramente ricorderà la fortunata saga di Resident Evil, dove la Umbrella Corporation, in una tipica ambientazione avveniristica nella quale le multinazionali governano il mondo, aveva costruito nel sottosuolo una colossale struttura che si estendeva su diversi livelli e dove grazie a dei laboratori si facevano esperimenti di ogni tipo su virus e affini (giusto per restare in argomento).

Ecco, mi aggiro sdraiato in questi corridoi dove nè finestre nè orologi sono presenti, ed è riesumazione mnemonica di questa immagine. Curioso notare come la mente alle volte, faccia dei collegamenti che oserei definire a dir poco creativi. La mia osservazione sugli orologi non è del tutto casuale. Durante questi 30 giorni nei quali non ho visto alcun telegiornale, alcun programma televisivo, anzi per dirla tutta sono stati 30 giorni nei quali ho dimenticato l’esistenza del mezzo televisivo, ho notato che nelle strutture che mi hanno ospitato, sia nelle camere che nei corridoi, vigeva una totale assenza di orologi. Non ne conosco il motivo. Sembra quasi che il trascorrere del tempo venga celato, come non abbia alcuna importanza. Questa cosa mi ha particolarmente colpito. Il degente (ma anche il personale medico) è costretto a chiedere l’ora ogni volta o a consultare il proprio inseparabile smartphone, cosa che risulta abbastanza difficoltosa visto l’abbigliamento degli operatori sanitari di questi particolari reparti: camice, tripli guanti in nitrile chiusi con nastro adesivo per sigillare il tutto.

L’altra immagine che si è formata nella mia mente vede l’alveare molto più aderente a quello che è nella realtà: decine e decine di operatori sanitari di ogni ordine e grado e specializzazione muoversi nei corridoi, verificare parametri, somministrare terapie, utilizzare apparecchi elettromedicali di ogni genere, verificare la configurazione dei ventilatori polmonari, programmare la velocità di erogazione delle flebo. Ebbene tutto questo movimento mi ha subito richiamato alla mente un vero alveare composto da centinaia di api. Ogni ape ha un proprio compito, si muove in un certo modo, ma tutte collaborano per un obiettivo comune: perseguire la mia guarigione e quella degli altri degenti.

A rafforzare ulteriormente questa immagine, contribuiva sicuramente l’abbigliamento dei sanitari stessi: identico per uomini e donne, nel colore e nelle componenti. Verdi i camici, verdi i copri scarpe, blu intenso i guanti. Occhiali protettivi e / o schermi facciali. Difficile, veramente riconoscerli e distinguerli. Unico modo era decodificare le scritte che spesso si decoravano l’un l’altro sulla la schiena oppure sul lato anteriore del camice.

Insomma, tutte api che lavorano alacremente per raggiungere uno scopo, in una situazione che oggettivamente era insorta senza alcun preavviso.


Capitolo 3 – “Il sole a mezzanotte”

Caro Lettore, no il nome che ho dato a questo capitolo non si riferisce in alcun modo all’omonimo film. Ma è la definizione più attinente e che meglio descrive ciò che ho vissuto nell’alveare.

Non so se è prassi comune, ma nel reparto sub-intensivo dove mi trovavo, nella solitudine della mia stanza (non mi sembra ci fossero altri degenti con me), circondato da monitor, pompe per le flebo ed “accessori” vari di cui ero dotato, le luci di notte e di giorno (vi ricordo che non c’erano finestre), erano sempre accese. Raramente passava qualche operatore sanitario, che dietro suggerimento del sottoscritto, provava a spegnerne qualcuna.

Poco dopo però, capitava però che un altra “ape operosa”, passasse e riaccendesse la tipica luce bianca da ambulatorio medico. Capirai anche tu, Caro Lettore, che almeno per chi, come me conta sul buio per conciliare il sonno, quella fosse una condizione veramente difficile da sopportare, e che acuiva la sensazione di disagio già presente per le precarie condizioni fisiche del momento.

Sicuramente il tenere acceso quelle luci era utile ai fini del monitoraggio, ma altrettanto sicuramente non aiutavano il sottoscritto a meditare sulla stesura di queste righe né tanto meno a cadere fra le braccia di Morfeo.

Oltretutto, anche la posizione assunta nel letto era ovviamente ulteriore motivo di disagio. Quanti di voi miei cari lettori riesce a prendere sonno assumendo particolari posizioni? Il fatto poi di essere costantemente collegato ad una flebo in puro stile Matrix, ti costringeva a tenere sempre un braccio dritto, fuori dalle lenzuola. Cosa mi restava da fare allora? Ma ovviamente consultare il mio inseparabile gadget tecnologico! Impossibile…non era possibile caricarlo. Impossibile cercare di posizionare il carica batterie. Insomma… ero scollegato dal mondo social e da quello reale. Ricordo inoltre, che essendo un reparto COVID, nessun parente era ammesso per le visite, per cui lo smartphone era l’unico mezzo di comunicazione verso la famiglia o gli amici. E allora unica cosa che potevo fare era cercare di cominciare a “scrivere mentalmente” questo racconto.

Devo dire che la luce bianca, fredda, delle lampade a LED che illuminavano ogni angolo del reparto, con il passare del tempo, cominciava a diventarmi familiare, sempre insopportabile certo, ma familiare.

Volevo condividere con te Caro Lettore due considerazioni di ordine pratico legate al disagio del momento: ovviamente per motivi terapeutici non avevo la possibilità di portare gli occhiali, in quanto gli strumenti di tortura che indossavo regolarmente (dei quali parlerò più avanti), lo impedivano; per fortuna anche senza occhiali riuscivo a vedere abbastanza bene sia da vicino che a media distanza. Non oso immaginare la frustrazione di chi ha difetti visivi più importanti e la drammaticità di non vedere ciò che gli succede intorno.

L’altra “fortuna” risiede nel fatto che per certe azioni posso essere ambidestro, come ad esempio nell’uso dello smartphone: di solito scrivo e lo gestisco con la mano sinistra: so che può far sorridere, ma se ti trovassi con il braccio destro sempre immobilizzato, questa abilità potrebbe tornarti utile Caro Lettore.

Addirittura, in quel tempo, se non ricordo male, credo di essere riuscito anche a dormire per qualche ora. Questo fatto della posizione innaturale nel giaciglio e delle luci “assordanti” mi ha fatto riflettere per la prima volta, su come noi #siamotutticambiatiadesso. Anche queste piccole cose hanno creato una sorta di “cambiamento” nelle mie abitudini; così come per migliaia e migliaia di persone, almeno temporaneamente. Per un certo periodo di tempo, la gente ha fatto (e farà) cose che non avrebbe mai pensato di fare. Nel mio piccolo ad esempio, le nuove abilità acquisite sono state imparare a dormire supino e mangiare con la mano sinistra. È vero che l’essere umano si adatta facilmente all’ambiente che lo circonda, ma Caro Lettore, ti assicuro che non è così semplice come sembra.

Questa assenza di informazioni temporali equivale a non avere la possibilità di seguire il normale susseguirsi del giorno e della notte (magari solo guardando fuori da una finestra) e, a lungo andare fa si che il tempo diventi “piatto”. Non ho trovato una definizione più semplice e chiara: vai avanti seguendo una sorta di “linea retta” che non si interrompe mai, solo temporaneamente sospesa nel momento in cui riesci a sapere che ora è, per poi riprendere la sua linearità. Il nuovo intervallo temporale di riferimento diventa il “quanto è passato” fra l’ultima volta che ti hanno detto l’ora e la volta successiva.

Ho notato che a lungo andare, nemmeno più ti importa di avere un riferimento temporale: speri solo che arrivi un momento in cui, come in alcuni telefilm di fantascienza, il tempo riprenda il suo scorrere normale. Qualcuno potrà obiettare: ma non avevi un orologio da polso? La risposta è affermativa: ma il problema era di tipo logistico. Visti i frequentissimi prelievi ematici in mille diversi punti del braccio, il posizionamento dell’accesso venoso ed arterioso, non vi era spazio fisico dove metterlo: né a destra né a sinistra. La vita alle volte è veramente crudele.


Capitolo 4 – “Verso la superficie”

Caro Lettore, superati i paradossi temporali del capitolo precedente in stile “Ritorno al Futuro” (lo so lo so ma adoro la fantascienza), eccomi qui di nuovo: finalmente incomincio a vedere la famosa luce in fondo al tunnel. Non mi riferisco di certo al “sole a mezzanotte”, ma al fatto che a seguito di trattamenti che potrebbero essere paragonati a strumenti di tortura medievali, finalmente, e grazie anche ad una certa dose di fortuna, i miei valori ematici sono migliorati. Così dal piano semi-interrato, vengo spostato in un reparto meno intensivo. Questo reparto si trova fortunatamente in un piano più alto della struttura. Attraversando l’alveare, angolo dopo angolo, porta dopo porta è come emergere da una immersione verso la superfice, dove vedi la luce che filtra dall’alto. Incredibilmente si arriva ad un piano (credo il secondo ma non ne sono sicuro) dotato di finestre! Il mondo fuori, così come lo ricordavo esiste ancora! Le migliorate (di poco) condizioni di salute, danno una mano indirettamente anche al morale. Il sapere di essere uscito da una condizione limite, sicuramente risolleva un po' gli animi.

Credo che chiunque abbia avuto una esperienza simile alla mia, abbia vissuto dei momenti diciamo “particolari”. Ti faccio un esempio: “Salve Alessandro, sono il dottor… come sta? Le volevo parlare. Vede questi valori? Se non cambiano con le terapie che le stiamo facendo la dobbiamo intubare per alcuni giorni”. Davanti a questa secca ed asettica affermazione da parte di due luminari, il mio primo pensiero è stato: come andrà a finire? E se non dovessi svegliarmi più?

Per fortuna il poter guardare fuori e vedere uno scenario immobile e desertico dal punto di vista delle forme di vita umanoide (ma comunque rigoglioso) ha sempre un suo fascino, soprattutto dopo essere stato nell’alveare. Addirittura, qualche operatrice sanitaria riusciva anche ad aprire quelle finestre, magari per poco tempo, ma pur sempre un tempo utile a ristabilire un contatto con il mondo esterno. Essere in superfice era una conquista: avevo la stupida impressione che più si saliva, più la mia condizione di salute migliorasse. Cosa in parte dettata anche dalla realtà dei fatti: i reparti ai piani superiori erano stati adibiti a COVID-19 dove venivano movimentati i degenti in fase di miglioramento. La prima cosa che ho pensato guardando fuori (tanto per cambiare) rievocava un altro film del genere “catastrofico” (visto il periodo), dal titolo “E venne il giorno”.

Questo film di una decina di anni fa, racconta di una epidemia improvvisa causata da una neurotossina e della fuga attraverso la campagna e i boschi di alcuni superstiti, nella speranza di sfuggire al vento portatore del batterio assassino. Nel film ci sono molte scene all’aperto dove il protagonista osserva la direzione del vento fra gli alberi per capire da che parte andare. Ecco, guardando fuori dalla finestra, la “superficie” mi ricordava una di queste sequenze (essendo l’ospedale immerso in una zona boschiva). Inoltre, lo stare in “superficie” aveva anche un ulteriore significato: ci si avvicinava, se le cose avessero continuato a migliorare, alla data di dimissione, quindi al ritorno a casa.

Illusione questa subito svanita dopo qualche prelievo per l’ emogasanalisi.


Capitolo 5 – “The mask”

Caro Lettore, ci siamo lasciati al capitolo precedente con dei valori di emogasanalisi ancora troppo bassi. Prendo spunto da questa triste verità per introdurre il nuovo argomento: “The mask”. Ancora una volta Caro Lettore, spero mi perdonerai, non faccio riferimento al noto film comico, visto che qualcuno per assonanza potrebbe pensarlo, ma a tutta una serie di maschere ad ossigeno che ho dovuto indossare a rotazione.

Avendo evitato per un soffio il ricovero nel reparto di terapia intensiva, non mi restava che sottopormi alle terapie pensate per far aumentare gli ormai famosi livelli di emogasanalisi. A questo punto della storia, il mio subconscio mi impone di spendere due parole su questo ricorrente esame per fare un po’ di chiarezza. L’emogasanalisi arteriosa - per gli amici “emogas” e per gli intimissimi “egas” - è un esame del sangue. Il campione viene prelevato, in genere, dall’arteria radiale (polso, ma vi posso assicurare per esperienza personale anche in altri distretti corporei…) e serve a misurare la quantità di ossigeno e di anidride carbonica presenti nel sangue. Sono proprio questi valori che mi hanno gentilmente permesso di sperimentare diverse tipologie di maschere ad ossigeno. È interessante notare come esistano diversi modi di respirare che non avevo, fortunatamente mai sperimentato.

Mentre contemplavo la natura fuori dalla finestra, venivo sottoposto (per il mio bene), ad ossigeno terapia diurna e notturna. Fortunatamente il problema del “sole a mezzanotte” era stato brillantemente superato, ma ora un nuovo problema si profilava all’orizzonte. Alcune di queste maschere medievali (oltre che scomode), hanno il deprecabile difetto di produrre un rumore (dovuto ai vari flussi di ossigeno che vi circolano) non indifferente. Questo ha fatto sì che durante la notte avessi ulteriore tempo per meditare sulla caducità della vita terrena ed altre amenità filosofiche.

Dopo aver inutilmente sperimentato ben tre diverse tipologie di sonnifero, l’unica cosa utile da fare era dedicare la notte alla pianificazione di quello che avrei fatto una volta tornato a casa. Questo supplizio mascherato, almeno in una prima fase, veniva applicato anche durante alcune ore del giorno (molto più sopportabile). Se non mi sbaglio in questi miei 30 giorni di prigionia (alias permanenza in ospedale), ho sperimentato almeno 5 diverse tipologie di maschere, più o meno arcaiche. Tra l’altro dai nomi molto criptici: es. C-PAP, NIMV, VPPI e VPNI nomi sconosciuti ma che impari a temere quando li senti bisbigliare dal personale sanitario che si affaccia in modo furtivo alla porta della tua camera.

Detto questo, fortunatamente ogni giorno che passava le mie condizioni lentamente miglioravano, così che per la seconda volta ho potuto sperare in una dimissione a breve.


Capitolo 6 – “Mis amigos”

Caro Lettore, una cosa che ho scoperto riguardo l’essere umano è che in alcuni momenti particolari della propria vita, in modo del tutto automatico e spontaneo, viene attivata una “opzione” che semplifica l’instaurazione dei rapporti umani. Dico così perché una delle pochissime cose buone che ho avuto in dono da COVID-19 è stata la possibilità di fare nuove conoscenze. Inevitabilmente quando si è in condizioni diciamo disagiate, lontano dalla famiglia, le persone che sono più vicine e che condividono la stessa sorte medica, diventano il nuovo riferimento.

Per quanto mi riguarda mi sono fatto tre nuovi amici, tutti compagni di stanza. Probabilmente sarò stato anche fortunato, ma devo dire che non ho avuto alcun problema a stringere amicizia. La cosa bella (o brutta) è che non sai mai chi ti capita in camera o quando ti spostano di reparto. Speri sempre di trovare qualcuno con il quale condividere lo stato di disagio fisico e psicologico di quel momento e quindi scambiarci due chiacchere. Ma nel mio caso sono andato oltre: complice forse il mio carattere espansivo, ho trovato tre nuovi AMICI - tre persone di età diverse tutte con molti anni in più di me -, con storie completamente diverse e con problemi diversi.

Nonostante tutto, in quei giorni abbiamo condiviso oltre che il reciproco disagio fisico, anche esperienze personali e, grazie alla mia capacità innata di ascoltare, ho ascoltato le loro con reale interesse.

Ovviamente i nomi che farò sono di fantasia, ma ciò che è successo, cioè il riuscire a conoscere così bene le persone in così poco tempo è assolutamente reale. Con Paolo ad esempio, molto più anziano di me, da subito c’è stata un’intesa dapprima iniziata naturalmente con un rispettoso “lei”, e poi rapidamente trasformatasi nel più efficace e colloquiale “tu”. Tanto è che ho persino partecipato a delle videochiamate con la famiglia, come se fossimo amici di vecchia data. Antonio invece, carattere molto più introverso, molto spirituale, ha richiesto poco tempo in più prima di entrare nella fase “ti racconto qualcosa di me”. Questa spiritualità alla quale faccio riferimento, non è casuale, visto che rispecchia una sua profonda fede della quale mi ha reso partecipe.

Ultimo, ma non per questo meno importante, Fabio, grande personaggio, una intesa trovata subito, basata non tanto sugli interessi comuni, quanto piuttosto su di una sintonia di idee inaspettata. Il risultato finale è che con queste persone ci sentiamo spesso anche dopo le nostre rispettive dimissioni e non per parlare “dei bei tempi andati” mi si passi il termine, ma per aggiornamenti di vita quotidiana.

Verrebbe da dire, parafrasando un noto proverbio, non tutto il COVID vien per nuocere! È stato un po’ come ritornare ai tempi della “naja” (per chi ha avuto modo di provare questa esperienza della leva militare) dove vivendo a stretto contatto con altri, a lungo andare avveniva una sorta di selezione darwiniana delle amicizie, che per alcuni sono durate anche tutta una vita. Non posso però non fare accenno ad altre persone che ho conosciuto, come OSS ed infermieri che quotidianamente scambiavano due parole gentili, riportando le notizie dal “mondo esterno”. Un mondo che in qualche modo come ho già accennato, è in parte cambiato: le amicizie prima reali, ora vengono gestite in modo virtuale anche da coloro che non hanno mai creduto nella vita “on line” o virtuale; non so dirvi se questo ha accresciuto o ridotto o trasformato le amicizie “tradizionali”, basate sulle strette di mano e le pacche sulle spalle, ma sarebbe interessante fare qualche indagine per averne un’idea.

Ho visto gente “affrontare” per la prima volta nella vita una “videochiamata” con curiosità mista a tanta rassegnazione; eppure per una madre che non vede il proprio figlio per due mesi direi comunque che la cosa risulta assolutamente normale.


Capitolo 7 – “Ma cosa è cambiato?”

Caro Lettore si, la domanda sorge spontanea…il vero cambiamento è ovviamente cominciato con il famoso lockdown; si è passati dal normale contatto sociale ad un isolamento condizionato da fattori che nessuno prima aveva mai sperimentato. Credo che nessuno di noi, soprattutto fra i meno giovani, abbia mai vissuto così a stretto contatto con i propri simili nemmeno durante una vacanza. Durante i vari allarmi occorsi nel passato, come il disastro di Seveso o quello di Černobyl' (per chi se li ricorda), un tale isolamento non è mai stato messo in atto, per cui non avevamo alcuna esperienza precedente in merito.

Si è poi arrivati alla fase più distruttiva dal punto di vista psicologico, quella denominata “distanziamento sociale”. Caro Lettore, ti dirò una cosa che ti farà sorridere: la prima volta che ho sentito questa definizione, non avevo prestato molta attenzione al contesto nella quale era inserita. Sul momento ho pensato che si parlasse di “caste”, o meglio di distanze sociali nel senso della classica suddivisione fra ceti.

Ancora oggi mi chiedo chi è stato a creare questa fantasiosa definizione. Costituisce sicuramente la precauzione più pesante per degli “animali sociali” come gli italiani. Ad esempio, il non poter più stringere la mano, segno universale di saluto, è a dire poco devastante: bisogna salutarsi ad almeno un metro di distanza, come se tutto ad un tratto la persona che hai di fronte venisse vista come potenziale “untore”.

Ma non abbiamo alternative: e quindi l’ingegno si è fatto strada inventando ad esempio il saluto con i piedi! Quasi in stile #challenge, sfida musico-ginnica molto diffusa su alcuni social per i giovanissimi come TikTok. Qualcuno si è pure inventato il saluto con i gomiti…qualcun altro con le ginocchia; certo se poi vogliamo analizzare i precursori di queste gesta ce ne sono stati già nel passato: il saluto vulcaniano di Spock nella mia serie preferita Star Trek evidenzia una veggenza tipica dell’autore di quella fortunata serie. Mi è capitato di incontrare un amico di lunga data l’altro giorno: ho notato una sorta di timore nello scegliere come approcciarmi.

In effetti ci si trova davanti ad un dilemma: se con la persona che incontri hai una amicizia storica, in un certo qual modo hai il timore nel salutare mantenendo il “distanziamento sociale” perché non vuoi passare per “untore” ma nello stesso tempo vuoi dimostrare che segui le regole imposte da cittadino modello: così ci si inventa una sorta di saluto/pacca sulla spalla, quasi “sfiorato” (magari con uso dei guanti anche) che manifesta l’intenzione di rendere abituale il saluto, ma senza contravvenire alle regole. Ho notato anche un’altra cosa Caro Lettore, prova a farci caso: unito al saluto fisico, c’è naturalmente sempre anche un saluto di tipo verbale, nel quale si cerca di “farci stare” tutta l’amicizia che le nuove modalità non riescono ad esprimere, come se ci fosse una sorta di compensazione.

Di questi nuovi COVID-comportamenti ce ne sono diversi: ad esempio un’ altra cosa che ho osservato è che in alcuni casi - pur mantenendo la distanza prevista -, gente che conosci, per dimostrare che le regole vanno seguite, ma anche che non devono essere una “barriera” fra di noi, abbassano la mascherina per parlarti, come per dire: “certo io sono ligio al dovere ma siccome ti conosco mi sembra eccessivo mantenerla, dopo tutto ci conosciamo da 25 anni”.

Sono tutti piccoli cambiamenti (sicuramente temporanei) che sono entrati a far parte della nostra vita. Sono quasi convinto che allo scadere definitivo del lockdown e delle restrizioni personali, tutto ritornerà come prima; probabilmente non subito, ma l’uomo si adatta in fretta ai nuovi scenari di vita per cui credetemi, le vecchie e care abitudini da animali sociali quali siamo, prenderanno di nuovo il sopravvento.

Un altro fattore determinante che guida le masse, sono le pubblicità che passano in TV e sui social in questi mesi. Ovviamente sono “pubblicità orientate”, oserei dire quasi “di partito” se fossimo in altri tempi e luoghi, tutte con uno stesso schema e che vogliono (o devono) veicolare lo stesso messaggio: cioè ricordare alla popolazione il rispetto delle regole imposte dal governo.

La maggior parte di esse terminano narrando in modo epico l’attesa di poter tornare a fare le cose di prima, quasi per dare allo spettatore una certezza che “loro” sanno sicuramente che sarà così, basta solo avere pazienza ed aspettare. Altro cambiamento fantastico che ho notato, è il cercare di mantenere una rispettosa fila al di fuori degli esercizi pubblici o dai supermercati: è uno sforzo immane per l’italiano medio che vede nelle code, il nemico pubblico numero uno. Certo, ci sono stati episodi ad opera dei soliti “furbetti salta fila”, ma molto limitati.

Mi chiedo dunque, se questa buona abitudine entrerà a far parte stabilmente del nostro patrimonio genetico o se, come un gene recessivo scomparirà una volta tornati alla normalità…staremo a vedere. Non posso invece analizzare più di tanto il comportamento domestico delle famiglie costrette alla convivenza forzata perché purtroppo essendo stato ricoverato e non avendo una situazione familiare complessa (figli, anziani, cani, criceti, conigli e quant’altro) non ho vissuto in prima persona la vicenda: qualcuno dice che la convivenza forzata delle famiglie (mai vissuta prima in questa forma), porterà senza dubbio a nuove separazioni di coppie o a nuove unioni; anche qui ai posteri l’ardua sentenza.


Capitolo 8 – “Aspetto il prossimo”

Caro Lettore, no, non sto parlando di un tram o di un autobus del trasporto pubblico (peraltro molto rari in questo periodo), bensì del prossimo contagio a livello global, o del prossimo “incidente” come la miglior corrente complottista sostiene ci sia stato all’origine di questa pandemia.

Ma andiamo con ordine: come ben si sa sono due le correnti di pensiero che ruotano attorno all’origine della epidemia. La prima, quella solita del ceppo derivante da una non ben definita malattia di alcuni pipistrelli, l’altra è quella più maliziosa e intrigante dell’esperimento “sfuggito” al famoso laboratorio che casualmente si trova proprio fuori la città di Wuhan. Ora, personalmente, non so a quale delle due teorie credere, essendo come noto appassionato di Sci-Fi e fantapolitica, tenderei a dare peso alla seconda teoria, sicuramente più esotica ma, come sempre sono solo considerazioni personali.

Come molti sanno, nel passato ci sono state diverse epidemie che hanno fatto milioni di morti, epidemie non certo create in un laboratorio per la guerra batteriologica. È anche vero che i tempi sono cambiati, e sicuramente qualora ci fosse stato realmente un incidente nella realizzazione di una nuova arma, nessuno lo avrebbe mai reso noto. Ma facciamo un po’ di salti temporali per fare un riassunto veloce di quello che è successo nella storia dell’uomo. Partiamo dalla peste di Giustiniano, che in tutto l’impero bizantino fece oltre 4 milioni di morti. Per arrivare poi alla “peste nera” (la peggiore epidemia a metà del XIV secolo (tra il 1346 e il 1353) che secondo le stime lasciò sul campo circa 50 milioni di persone. L’epidemia di vaiolo in Europa invece, ebbe un periodo di drammatica espansione durante il XVIII secolo, infettando e sfigurando milioni di persone. Fortunatamente, è una delle due uniche malattie che l'uomo è riuscito a debellare con la vaccinazione. Venendo avanti negli anni arriviamo al 1918 dove ci fu il primo caso della “influenza spagnola”: ora della fine della pandemia stessa si stimarono dai 20 ai 50 milioni di morti nel mondo. Fu poi la volta della “asiatica” registrata all’inizio in una penisola cinese (!) nel 1957 fece, ora della fine, circa 1 milione di morti nel mondo. È qui che compare per la prima volta la “codifica” alla quale noi oggi siamo abituati: venne battezzata come Virus A (H2N2). Ci siamo, inizia l’era delle pandemie “aviarie”. Nel 1968 arriva la “influenza di Hong Kong” (!) denominata Virus A (H3N2) ed anche qui, pare che dalle stime ci furono circa 1 milione di morti nel mondo.

Ed eccoci finalmente in tempi più recenti, per la precisione nel 1981 quando fa la sua comparsa il virus HIV (meglio noto come AIDS) causata dai due Virus HIV-1 e HIV-2. La sua diffusione negli anni a seguire fece (e fa tutt’oggi) secondo una stima, 25 milioni di morti nel mondo. Anche allora ricordo, qualcuno disse che l’HIV era stata creata in laboratorio, ma si sa, i complottisti non vanno mai in vacanza, altri come oggi, sostenevano che questo virus fosse derivato da mutazioni genetiche di un virus che colpisce alcune specie di scimpanzé africani.

Nel 2002-2003 invece divenne famosa la SARS (in arrivo dalla provincia del Guangdong, Cina). Una forma “atipica” di polmonite causata dal Virus SARS-CoV (eccolo!). Nel mondo ci furono circa 9000 infetti, e meno di 800 decessi. Dal 2004 non se ne sente più parlare.

Muovendoci ancora sulla linea temporale arriviamo al 2009-2010 dove il Virus A (H1N1) detta anche “influenza suina” fa parlare di sé. Non fu fortunatamente all’altezza delle pandemie precedenti, facendo solo circa 3000 morti in tutto il mondo.

E finalmente dirai tu, eccoci al 2019 dove il Virus SARS-Cov-2 (noto ai più come COVID-19 o Coronavirus) riempie le cronache dei media, partendo guarda caso, proprio dalla città di Wuhan in Cina, una megalopoli di 11 milioni di persone.

I numeri non ve li sto a raccontare, anche perché fra TV e siti web ce li propongono quotidianamente con una frequenza ed una precisione quasi paranoica: è comunque singolare che molte di queste epidemie (o pandemie come nel caso del COVID-19) arrivino dai paesi asiatici e più nello specifico dalla Cina. Sarà un caso?


Capitolo 9 – “Il Lab”

Caro Lettore, non lo so, ci ho pensato molto nelle giornate e notti insonni: ho letto decine di articoli a riguardo soprattutto della stampa straniera, scritti sia da complottisti che da “scienziati” o pseudo tali. Uno dei pochi fatti certi è che nella città dove tutto è partito esiste questo famigerato laboratorio (costato ben 44 milioni di dollari) in uso anche all’OMS e dove secondo alcuni, si studierebbero nuove armi batteriologiche. Ufficialmente (!) chiuso il 23 gennaio del 2020, conta circa 250 ricercatori al suo interno.

Sembra che addirittura sia americani che francesi abbiano per anni finanziato gli scienziati cinesi per condurre esperimenti sui virus animali proprio in quel laboratorio (Wuhan National Biosafety Laboratory) che per chi non lo sapesse, è un laboratorio di Livello 4 (detto P4 sempre dai soliti amici). I livelli di bio-sicurezza vanno dal 1 al 4, in funzione della destinazione d’uso del lab stesso. Sempre a Wuhan ne esiste anche uno di livello P3. Più alto è il livello di bio-sicurezza, più gli esperimenti che vengono condotti al suo interno sono pericolosi e allo stesso tempo interessanti.

Cito testualmente una nota fonte sulla rete: “Questo livello (P4), è necessario per lavorare con agenti pericolosi ed esotici che presentano un elevato rischio di trasmissione di infezioni in laboratorio per via aerea, con agenti che causano gravi malattie mortali in esseri umani per le quali non sono disponibili vaccini o altri trattamenti”. Lo sapevi Caro Lettore?

Qualche altra corrente meno complottista ma più “scientifica”, suggerisce che il virus sia realmente fuoriuscito dal Lab, ma che non è stato creato artificialmente dall’uomo e che abbia quindi una origine naturale.

Che dire...non so…non è un segreto che nel mondo esistono diversi laboratori che detengono virus pericolosi e sui quali fanno test per la creazione (almeno così dicono) di cure e vaccini o dove si conducono esperimenti genetici (eugenetica). Per questo motivo, se davvero è stato un incidente, mi aspetto che nel prossimo futuro dove, le guerre tradizionali verranno sempre più sostituite da quelle batteriologiche, possa verificarsi qualche altro incidente “di percorso”.

Secondo le ultime news, diverse aziende (già da qualche tempo) stanno studiando un vaccino per il COVID: pare che l’americana Moderna ed una joint venture fra una ditta italiana Irbm e il prestigioso Jenner Institute britannico siano le più avanzate in punto di sperimentazione: anche in Australia si sta iniziando la sperimentazione (dicono addirittura 118 sperimentazioni contemporanee). Nonostante nel mondo tutti stiano lottando per lo stesso obiettivo, a me da l’impressione di essere comunque una gara.

Il primo che arriva è sempre il più bravo (ed il più ricco): un po’ come alle elementari. Sicuramente qualche complottista sosterrà la teoria che in queste aziende avranno assunto scienziati responsabili della creazione del virus stesso! Alcuni ben informati sostengono che verso la metà del marzo scorso, sia stato riaperto il Lab per condurre un test (su dipendenti volontari del Lab stesso) di un vaccino “Made in China” contro il COVID-19.

Ad ogni modo l’affascinante ipotesi del laboratorio segreto mi ha distolto dal parlarti della prima ipotesi e per questo chiedo ti chiedo scusa: una parte della comunità scientifica ritiene che lo scenario più probabile prefiguri l’origine naturale del virus, passato dagli animali agli uomini tramite un altro organismo ospite a metà strada fra il pipistrello (venduto regolarmente al mercato di Wuhan) e l’essere umano. Chi avrà mai ragione?

È proprio di qualche giorno fa una nota della portavoce del Lab: “Il laboratorio sta lavorando su tre ceppi di coronavirus provenienti dai pipistrelli, ma nessuno di questi sarebbe il virus noto come Sars-CoV-2”.

E ancora parla la responsabile del Lab Wang Yanyi: “Isoliamo virus simili al Covid, ma pandemia non è colpa nostra, al momento, abbiamo tre ceppi di virus vivi, ma la loro somiglianza con il Covid-19 "è solo del 79,8 % “. Ci crediamo? Come mai lo dicono solo ora?

Risulta difficile almeno per me pensare, Caro Lettore, che il colpevole di un crimine ammetta di averlo compiuto, soprattutto quando si parla di risarcimenti globali che (secondo uno studio britannico) ammonterebbero a circa 3200 miliardi di euro.

Spero solamente che quanto successo fino ad ora con il COVID-19 sia almeno un po’ di esempio in modo da avere una popolazione in parte già “abituata” a questo tipo di problema, in modo da essere in qualche modo più pronti ad affrontare certe situazioni. Ma davvero l’uomo impara sempre dai propri incidenti, ops! volevo dire errori?


Capitolo 10 – “Home sweet Home”

Caro Lettore, ma torniamo a noi, finalmente dopo una lunga prigionia durata 30 giorni, si schiudono le porte dell’ospedale, che significa ritorno certo a casa. Dopo i soliti esami di routine pre-dimissione (tutti concentrati nella stessa mattina TAC compresa), finalmente ci arriva la buona notizia. Dico “ci”, perché dopo aver condiviso la stanza ed altre confidenze, io ed il mio coinquilino Fabio veniamo dimessi insieme.

La dottoressa mi spiega le ultime formalità, fa un accenno al mio status di “guarito” (finalmente) e mi consegna il solito faldone sanitario in formato cartaceo.

Il fatto di essere stato dimesso senza alcuna terapia domiciliare fa ben sperare per il futuro: probabilmente il cocktail di farmaci (che non vi sto ad elencare ma sono veramente tanti) antivirali dai nomi a dir poco esoterici (utili per Ebola, HIV ed altro) aveva fatto il suo lavoro.

È una bella giornata dal punto di vista meteorologico: il “mondo esterno” appare ovviamente desertico come previsto. Vedere una grande città così deserta mi fa sempre un brutto effetto; forse perché sono da sempre abituato a “viverla” diversamente. Il paesaggio, se non fosse per l’assenza di erbacce ovunque e palazzi diroccati, sembrerebbe il set di “Io sono leggenda”; ci spostiamo nel deserto più desertico verso l’autostrada.

La cosa più importante era comunque arrivare a casa. Dopo 25 gg di immobilità quasi assoluta, il muoversi nel “mondo esterno” appare più difficile del previsto: la gravità doveva aver cambiato le sue regole durante la mia assenza. Ora penso di sapere cosa provano gli astronauti di rientro sulla Terra dopo un lungo periodo nello spazio.

Dopo aver lasciato Fabio presso il suo domicilio, con la convinzione che non sarà un addio ma solo un arrivederci, mi dirigo verso casa con il mio amico Marco che è venuto a riportarmi nel mondo reale. Le difficoltà motorie fino a quel momento limitate, si amplificano nel momento in cui una volta a casa, affronto il primo vero ostacolo da uomo libero: le scale.

Sotto gli occhi di mia moglie, mi rendo conto che l’immobilità genera mostri: salire le due rampe di scale è stato veramente impegnativo.

Il ritorno a casa è ovviamente soggetto ad una serie di regole (per la quarantena) ben precise: l’uso delle mascherine da parte degli abitanti della casa (per fortuna solo mia moglie), il restare separati, il dormire separati ed altre “accortezze” sui generis. Tutto sommato, Caro Lettore, la cosa importante era esser stato dimesso in buona salute. Le restrizioni vigenti per il lockdown hanno poi fatto il resto. In questi capitoli non ho mai fatto riferimento ad una cosa molto importante: il supporto psicologico ricevuto dal sottoscritto e da mia moglie da amici e conoscenti. È stato fondamentale e assolutamente pazzesco. Amici che ogni santo giorno di prigionia mi scrivevano per avere info aggiornate: altri amici che puntualmente chiamavano mia moglie tutti i giorni per sapere come andavano le cose. Voglio quindi ringraziarli anche da qui per l’enorme affetto dimostrato.

La cosa “brutta” invece che ho notato alla fine di tutta questa COVID-vicenda è il fatto che comunque sia, anche se dimesso perfettamente guarito, la gente (almeno per un po') ti vede come uno “che è stato infettato”: nel loro subconscio si aggira ancora vivo il sospetto di trovarsi davanti una persona che si, sembra stare bene adesso…ma…. Sarà davvero guarito? Può ancora attaccarmi il virus? Paure assolutamente lecite che alla fine fanno emergere lo spirito di sopravvivenza che l’uomo ha da sempre dentro si se’.


Considerazioni finali

Eccoci qui, Caro Lettore, giunti alla fine di questo breve cammino; è venuto il momento di fare un COVID-bilancio della situazione. Che dire…molte opinioni le ho già espresse nei capitoli precedenti. Unica cosa di cui non ho ancora parlato è forse la quarantena che se vogliamo è un po' la parte finale della COVID-storia. Una delle migliori definizioni che ho letto e che la sintetizza perfettamente è questa: “La quarantena, come stiamo purtroppo sperimentando, è un’esperienza spiacevole che comporta la perdita di libertà individuale, la separazione dai nostri affetti più cari e uno stato di incertezza sulla propria salute e sul futuro.”

Io ne ho vissute ben due, una in fase pre-ricovero e la seconda in fase post-ricovero. Ho saputo di alcune persone (assolutamente sane e senza alcuna patologia) che solo al pensiero di contagiarne altre si sono auto-imposte la quarantena. Un alto senso civico ed un altruismo mai visti prima. Bah.

In realtà non l’ho vissuta poi così male, la condizione di non poter uscire di casa non era così dissimile da quella vissuta da altre persone che avevano comunque forti limitazioni di movimento.

Diciamo la verità: questa pandemia ci ha tolto oltre che la salute, una delle cose alla quale siamo sempre stati abituati: la libertà. È proprio vero il detto che recita che finché non la perdi non ti rendi conto del tesoro che avevi prima. E se davvero tutto questo fosse un COVID-piano ben architettato da qualcuno? Magari dai soliti poteri occulti? Il nuovo ordine mondiale? Si è letto e sentito veramente di tutto a riguardo. Oppure un piano ben congegnato almeno (dal punto di vista economico) che ha subìto una deriva non prevista? Sono sicuramente domande alle quali non si avrà mai risposta. Un grazie di cuore va a te Caro Lettore e a tutti coloro che hanno impiegato parte del loro prezioso tempo nella tortuosa lettura di queste righe.

L’unica cosa che posso dirti è che COVID-19 ha dimostrato tutta la nostra vulnerabilità di essere umani. Ti lascio rendendoti partecipe delle mie due ultime paure: ho lo strano presentimento che il virus “stia facendo finta” di essere stato sconfitto (o messo sotto controllo) per poi ritornare alla ribalta forte di qualche nuova mutazione imprevista. La seconda paura è che mi aspetto da un giorno all’altro, una nuova breaking-news relativa ad un nuovo (Paziente 0) caso di contagio, che sarà inevitabilmente sconosciuto e proveniente da chissà quali terre lontane. Ma non preoccuparti: verrà subito battezzato con il solito nome criptico ed incomprensibile ma pronto a dare battaglia.



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