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  • Immagine del redattoreAlessandro Borgonovo

"COVID City" (26/11/2020)

Dopo un mese di assenza, Caro Lettore, eccomi di nuovo qui. Questa mia latitanza è dovuta principalmente al fatto che in queste settimane, non ho letto, colto, nessuna notizia particolare. Le ultime chiacchere che girano sono quelle relative al lockdown 2.0, al rush finale della corsa ai vaccini ormai (si spera) in dirittura di arrivo. Ma…. Se analizziamo bene, nessuna news realmente sconvolgente: per questo motivo ho deciso di disquisire su un argomento che avevo in mente di trattare già diverso tempo fa ma che ho sempre rimandato. Si tratta di una analisi di come scorre la vita a Covid City, alias la mia tanto amata città di Milano.

Ebbene si, Caro Lettore ti espongo i miei sentimenti ancora una volta: a me piace da sempre questa città, dove da anni trascorro parecchio tempo, prima per motivazioni scolastiche, lavorative e (storia di qualche mese fa) anche sanitarie.

Insomma, non riesco a starle lontano per troppo tempo. Ma nella realtà cosa è cambiato rispetto allo stesso periodo pre-COVID? Vivendola praticamente tutti i giorni si ha una sensazione di normalità ma che in realtà nasconde qualcosa di più profondo. Stavo riflettendo su questi cambiamenti la settimana scorsa, mentre ero in attesa della solita Metrò. Prendo spunto da quest’ultimo indispensabile mezzo di locomozione prediletto dal sottoscritto, per parlare delle differenze che ho notato.

Lati positivi: direi che a parte una fase iniziale nella quale la “ripresa scolastica” ha dato il meglio di sé, i mezzi di trasporto a seguito del nuovo “soft lockdown” sono tornati vivibili. Non ti nascondo Caro Lettore, che un po' mi manca la ressa assurda che ogni santa mattina, bisognava affrontare con il coraggio e l’ardore che un soldato dimostra in un assalto all’arma bianca.

La gente diligentemente si siede dove indicato, tutti indossano la mascherina, beh magari non proprio tutti correttamente, ma la statistica gioca a favore del rispetto delle regole. Nelle stazioni FINALMENTE, esistono scale e percorsi separati per la salita e la discesa, per l’entrata e per l’uscita, cosa che per anni e anni e anni ho sempre sperato che accadesse, nel tentativo di metter un po’ di ordine nella circolazione caotica delle unità di carbonio che le popolano. Ci sono da parecchi mesi adesivi per qualsiasi cosa e per qualsiasi posizione. “Stare in piedi qui” o “Stai qui” è la frase più comune che si legge sui pavimenti delle banchine di attesa: certo si sa, la teoria è una cosa la pratica un'altra…diciamo che comunque in generale le persone rispettano le direttive alla lettera.

Idem sui mezzi di superficie, come ad esempio i tram: praticamente deserti. Tutto ciò fa ben sperare in quanto ad una diminuzione dell’indice Rt e della curva di contagio; speriamo.

Analizzando invece la sfera dei lati negativi della faccenda, non posso non spendere due parole sull’aspetto “social”: eh si, non social nel modo in cui lo si intende oggi, ma inteso come “socializzazione”. Personalmente da moltissimi anni (alcuni soggetti li conosco da ben 25 anni almeno) frequento un gruppo eterogeno di viaggio che è diventato molto di più di un insieme di persone che vedi al mattino e alla sera, oserei dire ancor più che amici. Lo smart working purtroppo ha in parte demolito se mi si passa il termine, l’abituale frequentazione; lo scambio quotidiano di battute, di problemi di vario tipo, discussioni serie e scherzi, erano parte integrante della giornata. Ammetto che questa mancata consuetudine dal punto di vista psicologico mi pesa parecchio: viaggiare da solo non è scritto da nessuna parte nel mio DNA.

Lo stesso problema lo riscontro in parte anche nell’ambito lavorativo: l’ambiente di lavoro si sa è fonte di gioie e più spesso di dolori. Ma l’abitudine di scambiare due chiacchere con “i colleghi preferiti” (o meglio le colleghe) è veramente dura a morire.

Ma l’aspetto che più di tutti ritengo devastante dal punto di vista della salute mentale è il non poter bere il caffè al bar o mangiare seduti durante la pausa pranzo. Io sono assolutamente convinto che il governo Conte dovrebbe prevedere una sorta di risarcimento caffè oltre al Decreto Ristori: la tristezza assoluta mi pervade quando al mattino “il rito” di bere il caffè nel solito bar dove vado da migliaia di anni, viene sostituito dal “caffè d’asporto”, un atto che senza dubbio dovrebbe essere configurato come un crimine contro l’umanità. Solo chi lavora come me da sempre a Covid City mi può capire! Così come in pausa pranzo, vedere la gente in fila fuori dall’esercizio commerciale in attesa di ritritare la propria borsa ricca di prelibatezze da consumare sulla propria scrivania, instaura in me una sensazione di depressione non indifferente.

Tutto questo probabilmente perché mi ritengo un individuo molto “social” sia dal punto vista virtuale che nella vita reale. Il rapporto poi che si instaura con alcune persone dopo anni e anni di frequentazione, alle volte sicuramente più forte di quello che si ha verso i propri parenti, non si può cancellare semplicemente con un virus.

Girare per le strade, soprattutto in alcune zone, ti dà l’idea che più che il colore di moda (Rosso, Rosso Pompeiano…per chi ha colto l’ennesima citazione cinematografica), la scarsa mobilità quanto meno pedonale, sia favorita all’altro attore di questo periodo COVID di cui ho già ampiamente parlato: lo smart working.

Vedremo come nelle prossime settimane, DPCM permettendo, Covid City si trasformerà per il consueto periodo natalizio. Qualche timido segno girando per il centro ovviamente già lo si nota: probabilmente sarà in tono minore come per tutti noi. Personalmente io lo vivrò con un pensiero rivolto a tutti coloro che hanno vissuto questo anno, affrontando direttamente o indirettamente un nemico invisibile che alcuni non sono riusciti a sconfiggere.




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